sabato, ottobre 20, 2007

Ho letto l’articolo che seguo con profondo sgomento… non solo per ciò che la morte e la guerra rappresentano, ma perché i morti in questa guerra hanno la mia età.

La classe perduta dell'80

di Vittorio Zucconi, tratto da La repubblica

Arlington (Virginia) - Trovare la generazione perduta dei ragazzi dell'80 è facile. Basta seguire i vecchi in cammino verso le tombe dei giovani, perché tutti i cimiteri di guerra sono fatti cosi. Sono mondi contronatura, città capovolte nelle quali i giovani stanno sotto la terra e i vecchi sopra. Nei giorni delle feste solenni, quando le scuole sono chiuse e gli uffici sono muti, sgambetta tra le lapidi qualche bambino che non ricorda nulla del padre sotto i suoi piedi, e si sdraia sulla terra come sul letto matrimoniale ormai vuoto qualche giovane donna che ha paura di dimenticarlo. Ma nei giorni feriali ci sono soltanto i vecchi e le vecchie, che magari hanno poco più di quarant'anni, ma hanno lasciato quello che restava della loro giovinezza nelle fosse dove giacciono i «ragazzi dell'80», la leva dei ventenni americani inghiottita da un'altra guerra combattuta per mettere fine a tutte le guerre.

Ci sono più di 300 mila morti qui nel cimitero di Arlington, sulle colline della Virginia a sud di Washington oltre il fiume Potomac, che appartennero al generale comandante delle armate Sudiste nella Guerra Civile, Robert E. Lee. Seguendo i vecchi troppo orgogliosi per prendere l'autobus identico a quelli che scarrozzano i turisti a Disneyworld, per viali e i sentieri e pettinati come neanche il giardino del re, si arriva, all'incrocio fraYork e Halsey road alla “Sezione 60”, la più grande. La si riconosce subito, dalle lapidi di marmo ancora fresco e bianco, dai fiori e dai pupazzi sparsi. Soprattutto, l'annunciano due scavatrici giapponesi gialle che smuovono la terra delle nuove sezioni vicine, la 61, la 62, la 58, la 57.

Dissodano e rimescolano la terra con le loro pale per fare posto agli altri «ragazzi e ragazze» dell"80, e presto del '90, che reclamano il proprio posto, in attesa paziente nei frigoriferi degli obitori militari chiusi per ordine al pubblico e ai media, per non turbare i sonni dei sudditi. La terra di queste colline alluvionali, che il fiume porta giù dai vecchi monti Appalaci, è accogliente, soffice e la madre del sergente Princess Samuels, una bella ragazza dalla carnagione color cappuccino a giudicare dalle foto che lei distribuisce a tutti, deve essere rassicurata dal becchino, quando vede la lapide della figlia un po' storta. «Tutte si assestano, dopo qualche settimana, per il peso, nel terriccio bagnato e la superficie sopra la bara si infossa un po'. Ma noi torniamo a raddrizzare le pietre tombali e a ripianare il prato». La signora Regina Samuels si rasserena un poco. «Si era arruolata per avere i soldi dell'università», mi spiega come se fossi un parente e non uno sconosciuto importuno, nella spontaneità solidale di cimiteri e ospedali. Depone un'altra foto e una piccola zucca gialla. «Andava pazza per Halloween», la festa dei morti che scherzano ed escono dai sepolcri. Questa, non credo.

Princess era del 1985. Quando morì in Iraq, anzi, nell'Operazione Iraqi Freedom come sta inciso sulla lapide, perché la protervia della retorica politica non risparmia neppure i morti, era l'agosto scorso, dunque aveva ventidue anni. Una veterana, una «nonna», accanto ai ragazzini che ora le fanno compagnia nella «Sezione 60». Taylor Prazynski, caporale dei Marines, era del 1984. E’ morto nel 2004 il giorno del suo compleanno. Due lapidi un po' pendenti più in là, Nils G. Thompson ci racconta di essere caduto a 19 anni, nato nel 1986, morto nel 2005, come 19 anni aveva il suo vicino, Christopher Joyer di New Orleans, 1986-2005.

Diciannove anni aveva anche Colin Joseph Wolfe, caporale dei Marines, di religione ebraica annunciata dalla stella di Davide incisa sulla lapide e poiché le guerre sono sempre molto politicamente corrette e strette osservanti delle pari opportunità etniche, dopo il polacco, la donna di sangue africano, l'ebreo, il sudista con il nome francese, a 19 anni si sono portate via il Marine vietnamita Alan Dinh Lan e il cinese capitano dell'esercito Y. L. Chen, senza croci, stelle o altri simboli religiosi. Che ritrovo invece sulla pietra candida e fresca di Humayun Saquid Muazzarn Khan, capitano della US Army ucciso quando ormai era praticamente un pensionato, a 28 anni. Il simbolo è la falce di luna della sua fede, l'Islam.


L'età media dei 3.818 soldati americani volontari morti in Iraq (oggi saranno almeno tre di più) e dei 449 in Afghanistan, totale parziale 4.267, quasi il doppio delle vittime di al Qaeda nelle Torri Gemelle, è di 20 anni e sette mesi. Una giovinezza impressionante, per un esercito di professionisti, di volontari, un segno brutto di come si stia grattando il fondo di una generazione, per riempire i vuoti lasciati dagli anziani che se ne vanno appena scade il loro contratto con il Pentagono. Un'età che rammenta più i massacri dei nostri «ragazzi dei '99», o i reggimenti dei «kindermorder», dei liceali tedeschi che partivano a farsi macellare sulla Marna, piuttosto che un'armata di soldati di mestiere. «Uccisi nell'esplosione del loro trasporto truppe blindato», ricorda una lapide di marmo grigio più grande sopra una fossa collettiva che ospitai resti di cinque morti, non molti resti, a giudicare dalle dimensioni del rettangolo di erba fresca. 1983, 1984, 1985, 1986, ora anche qualcuno del 1987, nelle quattro fosse più recenti, ancora teenagers, nei loro 19 anni, con la barba non ancora completa, i seni ancora acerbi, dietro i giubbotti di kevlar spesso comperati dai parenti, con quelle maschere guerriere, gli elmetti da Star Wars, gli occhiali scuri, il beccuccio rialzato del visore notturno a infrarossi eretto sull'elmo come il pennacchio di un lanciere.

Non ci starebbero tutti 4.267, nel terriccio sulle sponde del Potomac, e neppure uno sui dieci di loro, 400, è sepolto qui. Il ministero della Difesa e l'amministrazione dei parchi nazionali che controllano questa immensa città dei morti sono parsimoniosi nell'accettare candidati e non tutte le famiglie lo richiedono. Molti vecchi preferiscono seppellire i loro giovani vicino a casa, nella semplicità di un funerale qualsiasi, senza trombe, silenzi, alte uniformi, lacrime di coccodrillo e schioppettate a salve. Alcuni rifiutano per dispetto, per rabbia contro la guerra che ha consumato i figli, la effimera consolazione dell'eroismo ufficiale. Altri non si possono permettere viaggi aerei andata e ritorno attraverso una nazione continente, per portare un pelouche - quanti pelouche ho visto sulle tombe dei guerrieri bambini - una foto, una zucca, un mazzo di fiori, ma non una piantina, che è vietata. E di fronte a una nazione indifferente, che continua a voltarsi dall'altra parte per non vedere quello che ha fatto a una generazione, ai morti e ai 30mila feriti gravi, il raccoglimento di un piccolo cimitero in Mississippi o in Indiana è meno offensivo della prosopopea del «giardino di pietra», come è stata ribattezzata la città dei morti. Sulle alture dalle quali si vede, dopo la caduta delle foghe, la Casa Bianca dove abita colui che li ha mandati a morire.


L'ultima fossa, la più recente, porta la data di nascita dell'anno 1987 e l'erba si è imbrunita per la siccità e al caldo innaturale di questo ottobre washingtoniano. Le zolle srotolate sopra la fossa, perchè seminare vorrebbe dire lasciare la polvere nuda fino alla crescita e fa brutto vedere, sono inaridite e i giardinieri si preoccupano. Tutto deve sembrare bello, dove niente lo è. Noi dobbiamo credere, fidarci, non vedere e portare qualche fiore ai figli. Magari anche un succhiotto rosa, che una madre ha fatto deporre a un bambino, davanti alla lapide del “lance corporal” dei Marines, Robert Mininger, classe 1984, morto nel 2005. Chissà se quella bambina ha fatto scenate, per togliersi quel succhiotto e che cosa ha dovuto dirle la madre, per convincerla, per mentirle, lascialo a papà, cosi dorme meglio.

E allora buonanotte, caporale.

Alessio

lunedì, ottobre 15, 2007

Si fa un gran parlare di ecologia e ambientalismo… ecco possiamo fare concretamente per ridurre il nostro impatto sull’ambiente. Si tratta di piccole buone abitudini che oltre a rispettare l’ambiente, ci permettono anche di risparmiare qualche euro.

L’articolo, di Cristina Mochi, è tratto da un Venerdì di qualche tempo fa.


Mettendoci tutti a dieta di carbonio si può alleggerire il peso del futuro


Nel 2005 entrava in vigore il protocollo di Kyoto. Ma, anziché diminuire, le emissioni di gas serra sono aumentate. Con pochi sacrifici, però, ognuno di noi può cambiare «taglia». E fare la differenza


Dopo la dieta del minestrone, questa primavera prepariamoci alla dieta del carbonio. La consigliano climatologi e ambientalisti, sicuri ormai che ridurre i consumi di energia (soprattutto tagliando gli sprechi) sia l'unica strada per ridare una speranza al Pianeta che ribolle.

Bisogna evitare, spiegano, che la temperatura media della Terra salga di oltre due gradi nei prossimi decenni, altrimenti il calore innescherebbe nell'atmosfera reazioni a catena dagli effetti imprevedibili. Ci sono gravi ritardi nelle scelte politiche, visto che alcuni tra i più gran di Paesi industrializzati del mondo, come Usa e Australia, non hanno neppure firmato gli accordi di Kyoto sulla riduzione delle emissioni di gas inquinanti.

In Inghilterra però è stato calcolato che l'85 per cento delle immissioni di anidride carbonica nell'aria dipendono dai comportamenti individuali dei cittadini. E dunque si può fare molto modificando, anche di poco, le proprie abitudini. Proprio come si farebbe in una dieta non troppo severa.

Gli italiani, per esempio, che sono consumisti e spreconi almeno quanto gli inglesi (produciamo circa 500 milioni di tonnellate di CO2 l'anno, contro i circa 600 della Gran Bretagna) per l'anniversario di Kyoto (16 febbraio) sono invitati da Legambiente a passare da una taglia nove a una otto.

Nove sono le tonnellate di anidride carbonica che produciamo a testa: perdendone una ridurremmo le emissioni di circa 56 milioni di tonnellate, addirittura più di quel che abbiamo promesso di fare siglando il trattato (cioè 32,5 milioni di tonnellate entro il 2012). Pochi i sacrifici richiesti, dicevamo, e si possono affrontare a cuor leggero, pensando che ci alleggeriranno il respiro ma non le tasche.

Accendere solo di notte uno scaldabagno elettrico, infatti, taglia 2135chilogrammi di anidride, ma anche 854 euro in bolletta. Sostituire cinque lampadine con quelle a basso consumo taglia 17 5 chili e 70 euro, non lasciare la tv in stand by taglia 79 chili e 32 euro.

Può consolarci sapere che, nel frattempo, parecchi nel mondo si stanno muovendo per fare la propria parte. C'è la grande catena di supermercati inglese, Tesco, che ha dichiarato di voler fornire di tetti fotovoltaici i suoi punti vendita per renderli autonomi dal punto di vista energetico.
Dopo, mettere sui propri prodotti, oltre al calcolo di calorie, proteine e zuccheri, anche la produzione di C02 della merce in questione, calcolata in base ai chilometri fatti per arrivare sul banco o alla quantità di imballaggi.

Sul web le proposte si fanno più originali: Mark Oritkush di Boston, nel blog Ecolron (ecoiron.blogspot.com) vorrebbe far diventare nera la schermata di Google, così servirebbero 59 watt anziché 74 per visualizzarla. Quanto alle scelte dei politici, una data cruciale per l'Italia sarà il l0 luglio 2007, quando il mercato dell'energia verrà liberalizzato. Ma bisogna fare attenzione. A quella data avremo una situazione simile a quella vissuta con la telefonia: appariranno più fornitori, ciascuno con le sue tariffe. Ma mentre quelle attuali garantiscono risparmi per i contratti fino a 3kw, e così facendo premiano, giustamente, chi consuma di meno, in futuro, tolto il tetto dei 3kw (che si rivelerebbe antieconomico in un mercato libero), accadrà il contrario: i nuovi gestori, per guadagnare, spingeranno a consumare di più per spendere di meno, come succede, appunto, con il telefono. “Noi invece proponiamo di fare come in California: se in un anno dimostri di aver utilizzato il dieci percento in meno di energia, avrai uno sconto del dieci per cento in bolletta”, dice Edoardo Zanchini di Legambiente. Il libero mercato, poi, dovrebbe dare anche la possibilità di optare per l'energia rinnovabile. Ma potrebbe non essere così: oggi viene certificata come verde solo l'energia che non ottiene incentivi, e cioè l'idroelettrica, Per di più il fornitore non ha l'obbligo di dirti da dove prende l'energia. Se prima di luglio questa legge non viene cambiata, non ci sarà un mercato né verde né trasparente. Sperando poi che tutti questi sforzi si rivelino utili. “Come abbiamo chiuso il buco nell'ozono, faremo anche questo”, ci rassicura Al Gore nel suo bel film Una scomoda verità.

Alessio

Il Bruco partecipa con questo post a: Bloggers Unite - Blog Action Day

Blog Action Day

Il 15 ottobre, i blogger si uniranno per focalizzare l'attenzione di ognuno su una sola, importante problematica. Quest'anno l'argomento di discussione sarà l'ambiente. Ogni blogger scriverà un articolo sull'ambiente, in modo del tutto personale e collegato all'argomento del suo blog. Il nostro scopo è far parlare tutti per costruire un futuro migliore.