lunedì, marzo 26, 2007

La musica è
la colonna sonora della vita

Questo post ha come unico scopo la raccolta delle vostre esperienze con la musica...da 0 anni fino ad oggi!

Basta scriverlo nei commenti...
Siate lunghi! non c'è problema.
Vediamo cosa esce fuori!


Simone

sabato, marzo 24, 2007

Una piccola brillante commedia

Si chiude con questo post, la prima parte della sezione dedicata al cinema.

Sono orgoglioso di dire che noi de Il bruco abbiamo visto questo film insieme, in uno dei cinema più popolari di Roma. E lo abbiamo apprezzato unanimemente.
E’, infatti, una delle più belle commedie che ci sia capitato di vedere in questi ultimi tempi, anzi nell’ultima stagione. Il titolo è “Little miss sunshine”.
In america è stato il caso cinematografico dell’estate: uscito a fine luglio su otto schermi, si è ritrovato, un mese dopo in millecinquecento. Costato otto milioni di dollari, ne ha incassati più di cinque volte tanto: 42 milioni solo in patria; ha accumulato premi ai festival di Deauville, al Sundance, a Edimburgo e a Locarno.

La commedia è graffiante e amara, on the road, su una famiglia fallimentare che a bordo di un vecchio pulmino Volkswagen tenta di traghettare la più piccola, una ragazzina grassoccia e miope (Abigail Breslin), verso la realizzazione di un sogno: partecipare al concorso di bellezza per bambine Little miss sunshine. Rinchiusi in un pulmino scassato per un tragitto lungo settecento miglia, tra il caldo e la polvere della California, la madre divorziata (Tony Collette), il nuovo compagno motivatore aziendale fallito (Greg Kinnear), il nonno sboccato ed eroinomane (Alan Arkin), lo zio gay fresco di suicidio (Steve Carrell) e l’adolescente ribelle votato al silenzio (Paul Dano) si confrontano in un linguaggio crudo e realistico, in un tragitto esistenziale che li porta a ribaltare il sistema di valori basato sul successo a tutti i costi.
I registi sono Jonathan Dayton e Valerie Faris, marito e moglie nella vita. La coppia, che è al primo lungometraggio per il cinema, nel curriculum vanta spot di grande successo, viedoclip musicali e documentari su gruppi come Smashing Pumpkins, Rem, Red hot chili peppers, Oasis e Ramones.

La scena clou è sicuramente quella finale (dove i registi hanno concentrato il messaggio morale della pellicola), quando tutto si ribalta, la famiglia sale sul palco e fugge dalla perfezione plastificata dei concorsi tv, dalla omologazione delle bambine-adulte sorridenti e truccate, dal cinismo delle madri menager, dimostrando così la loro vittoria.

Speriamo di riuscire a proiettarlo al cineforum… uno di quei film in cui si ride e ci si commuove imparando qualcosa.

Alessio

mercoledì, marzo 21, 2007

L’incanto di una donna

E’ una delle attrici, più belle, affascinanti, brave e dall’eleganza innata che io abbia mai visto e il cinema mai conosciuto.
E’ uscito nelle librerie da poco un libro a lei dedicato: “Audrey Hepburn. L’incanto di una donna” di Donald Spoto, edito Frassinelli.

L’attrice visse un’infanzia sfortunata. Il padre, Joseph Ruston, un inglese elegante e indolente che non riuscì mai a conservare un lavoro per più di un mese, abbandonò la miglie, la sofisticata Ella van Heemstra d’Olanda, sposata per interesse: era il 1935 e Audrey Hepburn aveva 6 anni, trascorsi a reclamare l’amore dell’arido papà e le tenerezze della mamma, troppo rigidamente aristocratica per manifestare affetto. Il distacco dal padre fu “l’episodio più traumatico della mia vita”, dichiarerà la Hepburn (che poi sceglierà il cognome della nonna materna), “ e in seguito ho vissuto con la paura costante di essere lasciata”.
L’attrice è educata nella solitudine di un collegi inglese, fino allo scoppio della guerra. Con la madre, dapprima simpatizzante della causa nazista poi passata con la Resistenza, si dedica non solo a collaborare con i partigiani ma anche ad assistere i malati ad Amsterdam. Dirà l’attrice: “Nel ’44 avevamo da mangiare solo bulbi di tulipani”. Ma Audrey crolla, nella prima di una serie di depressioni che la colpiranno tutta la vita.
Così la madre inizia ad accettare qualsiasi lavoro per realizzare il sogno della figlia, diventare prima ballerina; arte che la Hepburn studia da quando era bambina. Scoprirà di essere troppo alta per svettare come ballerina; farà quindi la comparsa in qualche film e la modella per la pubblicità: il suo sorriso e il modo di sbattere le palpebre incomincia ad incantare.
Tra il ’50 e il ’51 è in sette film; poi è ingaggiata dalla scrittrice francese Colette per il suo romanzo “Gigi” da interpretare a Broadway e anche da William Wyler che la scrittura per “Vacanze Romane” con Gregory Peck: il film le farà vincere l’Oscar.
Quindi la sua vita privata: tanti storie d’amore, sfortunate purtroppo; e il desiderio di avere tanti figli. Poi i due matrimoni infelici.
L’insicurezza, la sensazione di non essere mai all’altezza, accompagna Audrey tutta la vita. Né l’adorazione del pubblico né i compensi da capogiro (un milione di dollari degli anni ’60 per My fair lady) diradano la malinconia, che troppo spesso diventa depressione. E la sua voglia di fumare senza sosta. Muore di cancro nel ’93, dopo aver abbandonato da anni il cinema. Prima per fare la mamma a tempo pieno, poi per dedicarsi anima e corpo all’Unicef, ai bambini affamati, come lei durante la guerra (di recente il vestito da lei indossato nella prima scena di Colazione da Tiffany, creato da Givenchy, è stato battuto all'asta per 807.000 dollari: la somma è stata devoluta all’Unicef per la costruzione di scuole in India).

Ho deliberatamente attinto ad un articolo di Antonella Barina apparso sul Venerdì molto tempo fa.Solo due film che ho visto posso consigliarvi: uno è Vacanze Romane (nell'immagine una scena del film con Gregory Peck), straordinario e molto commovente (fa da sfondo una bellissima Roma del dopoguerra); l’altro è Colazione da Tiffany, tratto dall’omonimo romanzo di Truman Capote. Se potete e volete, scaricate Moon River la canzone che la Hepburn canta nostalgicamente nel film… un’indescrivibile meraviglia!

Alessio

lunedì, marzo 19, 2007

Chaplin… le opinioni di un vagabondo


Conscio della mia limitatezza nella conoscenza del Cinema (e ahimè non solo), mi avvalgo di un articolo tratta da Il venerdì di Repubblica che presenta questo libro, con la prefazione di Dario Fo: “Opinioni di un vagabondo: mezzo secolo di interviste”… il personaggio di cui si parla è Charlie Chaplin (o Charles Spencer Chaplin), nato nel 1889 e morto nel 1977.

La sua filmografia è sterminata e penso che tutti avremo visto qualche scena dei suoi film o sketch più famosi in Tv. Quelli che ho visto e chi mi sento di consigliare sono: Il grande dittatore (forse il più conosciuto; celebre la scena di Chaplin che gioca con il mondo), Il monello, Tempi moderni, Luci della città, La febbre dell’oro e Luci della ribalta. Interessante sarebbe anche leggere la sua biografia.
In Luci della città, c'è una scena che Ingrao ha definito una delle più belle della storia del cinema; credo che il suo giudizio sia condivisibile. Non voglio rovinarvi la sorpresa nè descriverla: provate a vedere l'intervista nel programma di Fazio, Che tempo che fa, al compagno Ingrao... oppure guardate il film, capirete immediatamente di quale scena si parli.
Ne Il grande dittatore, oltre la già citata scena, ce n'è un'altra che va evidenziata; potete vederla anche su youtube.com. E' definito il Discorso all'umanità, ed è la sequenza in cui Chaplin parla alla nazione...
In Luci della ribalta Chaplin recita insieme ad un altro grande attore del cinema muto, Buster Keaton. Entrambi invecchiati, mostrano la sorte degli attori del muto nell'era del sonoro (destino che non toccò Chaplin, ma che "rovinò" Keaton).

Dall'articolo: “Chaplin aveva il vezzo di ritenersi personaggio piuttosto deludente e dotato di scarso interesse. ‘Anche se non sono un pessimista e un misantropo, ci sono giorni in cui il contatto con qualsiasi essere umano mi fa sentire male fisicamente. In quei periodi sono oppresso da ciò che i romantici definivano “stanchezza del mondo”, mi sento un completo estraneo nei confronti della vita. Come se avessi sbagliato pianeta ’”. Dario Fo nota nell’introduzione che insistendo su tematiche come la poesia, la malinconia, il romanticismo si è finito col tacere della rabbia di Chaplin, sentimento che nasce dall’esperienza della sua vita: cresciuto negli slum londinesi, da genitori piuttosto poveri. Vita che trova il suo sfogo nei film e nelle comiche: “non c’è sequenza che non parli dello sgomento di fronte a un trauma antropologico che ormai giace sepolto nel nostro Dna: lo shock della civiltà automatica, della vita organizzata dove il lavoro è tutto e tutto è lavoro, dell’irruzione delle masse e delle megalopoli, indecenti, ma dove tocca campare, amare, provare a restare decenti. Come Charlot”. Nonostante il sonoro che non fece la sua rovina, ma che Chaplin seppe utilizzare con ingegno e originalità, dapprima soltanto con suoni e rumori, poi anche con la voce, “continuò a cantarle a un mondo che peggiorava a vista d’occhio” riconoscendo che “il meglio l’aveva dato nel muto: ‘Sapevo che col sonoro avrei perso molta della mia eloquenza’”.

A tarda età, “il cinema non parlava più la sua lingua rarefatta, ideogrammatica, del bianco e nero e del muto. Strombazzava sempre più le emozioni invece di suggerirle”. Dice Chaplin: “preferisco l’ombra di un treno che passa su un viso piuttosto che un’intera stazione ferroviaria”; e ancora, la sua sequenza ideale: “La scena che avrei sempre voluto girare: un uomo e una donna che hanno vissuto molto tempo insieme e poi si separano. Tempo dopo si incontrano in un ristorante, entrambi con un nuovo partner. Si dicono soltanto: “Ciao, come stai?”. Un cenno del capo, e passano oltre. Un legame così stretto, e poi quel terribile distaccarsi”. Dissolvenza.

Provate a vedere qualche suo film, uno qualsiasi. Tornate con la mente agli anni '20-'30; pensate cosa volesse significare allora comicità. Vi renderete conto delle novità che Chaplin, come Keaton e i fratelli Marx, portarono per la prima volta su pellicola: semplice, ma immortale, umorismo.

Alessio

mercoledì, marzo 14, 2007

Tra Ghezzi e Vigo: L'atalante
Si apre con questo post una nuova rubrica, che sarà seguita da un’altra a breve e poi da un’altra ancora a primavera iniziata. Si parlerà di storie, di Storia, di personaggi noti o meno noti: generali, registi, attori, uomini diventati eroi , qualche volta anche per sbaglio.

Inizio col parlare di cinema, con molta umiltà e consapevole del fatto di essere nient’altro che un dilettante, partendo dal lontano 1934 quando un giovane regista francese 29enne girò uno dei più bei film mai realizzati e che io abbia mai visto: L’atalante. Il regista si chiamava Jean Vigo.

Sicuramente molti di voi avranno visto scene di questo film, con il sottofondo musicale di “Because the night” di Patti Smith, su Rai Tre, sigla che introduce l’uomo in canottiera bianca che parla con la voce fuori sincrono, Enrico Ghezzi (l’inventore di Blob e di Fuori Orario, il programma in questione).
Le scene della sigla sono queste: una donna (Dita Parlo) che ruota nell’acqua come se danzasse e che poi sorride divertita; e l’uomo (Jean Dasté) che faticosamente risale con una corda la chiglia di una nave… poco altro. Non svelo il motivo di quella danza, né il perché dell’affascinante sorriso, spero potrete vederlo o anche solo intuirlo.
La trama del film è semplice, come semplici sono “la logica imperfetta della poesia e il fascino della bellezza pura”: due giovani sposini che vivono su un’imbarcazione, lei si annoia e fugge in città; lui cade in depressione e abbandona la nave. A mettere le cose a posto tra i due ci penserà Padre Jules, nella vita Michel Simon.

Secondo e ultimo film di Vigo, affetto da tubercolosi già durante le riprese. Ai botteghini sarà un fiasco, come il suo film precedente Zero in condotta. Tradite anche le intenzioni dell’autore: il film sarà ritoccato nel contenuto e col titolo modificato.
Si dovrà aspettare il 1940 perché veda la luce il vero Atalante come Vigo lo aveva immaginato.
Spero tanto che questo film possa essere aggiunto alla programmazione prossima del cineforum roccaseccano.
Qualora foste interessati a vederlo, mandatemi una email o scrivetelo nei commenti; cercherò di accontentarvi.

Alessio

mercoledì, marzo 07, 2007

Estetica del vuoto
Il vuoto nel CHANOYU
(cerimonia del Tè)

Questo argomento mi affascina e mi ha colpito molto, ed è per questo che ve ne parlo.
Credo sia una tradizione molto poetica e anche rilassante, sarebbe una cosa buona inserirla anche nella nostra società così frenetica.
Passando alla cerimonia del tè vorrei cominciare dire come e dove viene vissuta:
Il luogo in cui si celebra questa cerimonia è il “Sukiya” che significa dimora del vuoto o anche chiamata stanza del tè.
Per arrivare alla stanza ci sono dei rituali da compiere, ad esempio ci si arriva attraversando il “Roji” il giardino davanti la stanza, il quale si deve attraversare camminando su delle pietre distanti tra di loro e questa è la prima cosa che fa cambiare i consueti modi di percepire il movimento ed è grazie all’atmosfera del silenzio surreale e rispettoso che viene a crearsi.

Dopo aver passato il giardino si attende sotto ad un portico e lì la percezione del vuoto si comincia a farsi sentire di più; quell’attesa è come un modo per poter lasciare tutti i pensieri al di fuori di noi stessi e di continuare un cammino di purificazione.
A questo punto ci si sciacqua la bocca con dell’acqua per prepararsi ad una degustazione dei tè.
Entrando nella stanza del tè ci si deve rannicchiare perché l’ingresso somiglia più ad una finestra che ad una porta, ed anche questo ha un valore simbolico perché bisogna essere liberi mentalmente e non pensare all’onore.
Entrando si sta in una stanza allestita con semplicità, priva di qualsiasi cosa frivola e superflua, si può dire che, chi regna è il vuoto.
Nella cerimonia del tè c’è una tendenza nello sfumare i colori e comunque alla ricerca del colore originale, che è “nessun colore”.
Infatti negli interni gli unici colori percepibili sono le linee degli elementi architettonici e la trave verticale che delimita lo spazio tra la sukiya e un vano, il quale attaccato al muro ha un rotolo con una pittura.

L’assenza di colore e di mobili è per non far distrarre mentalmente e visivamente l’ospite.
Non bisogna soffermarsi all’aspetto della stanza, ma sollecitando la mente ad abituarsi ai pieni e vuoti di questa disposizione si arriva ad un punto che non è più una cosa da vedere ma è un modello da diventare; dunque quando non si è più distratti e la mente è vuota il modello diventa una parte di se e uno stile nello spazio della mente.
Così si conclude una prima fase piuttosto complicata da poter eseguire correttamente infatti bisogna essere molto equilibrati per poter riuscire a farcela.
Io credo che nella nostra cultura non sarebbe concepibile un concetto così di valore spirituale.

Ora si passa alla seconda fase, la cerimonia del tè vera e propria, infatti fin ora tutto ciò era solo una preparazione mentale al vuoto.
Il vuoto in cui si trova la cerimonia è interrotto solo dal rumore dell’acqua che bolle in un bricco di ferro contenente dei pezzetti di ferro i quali muovendosi con l’acqua in ebollizione, provocano dei suoni che possono ricordare ad esempio l’eco di una cascata, un temporale attraverso una foresta di bambù.

L’ importante è che il protagonista sia sempre il vuoto, interrotto solo da alcuni pieni sonori, quindi solo quando la mente è libera da ogni condizionamento sensibile si realizza la condizione reale cioè ogni fenomeno esterno può essere accolto nell’interiorità personale.
A questo punto il maestro con l’allievo eseguono dei movimenti (travasare l’acqua, miscelarla con delle foglie di tè e versare il tè) molto lenti e precisi; logicamente la gestualità del maestro è più naturale siccome non c’è più differenza tra se e il suo gesto e quindi diventano un tuttuno, proprio perché il maestro è in grado di svuotare la mente in modo da incorporare il gesto e renderlo fluido e non più teso. (logicamente l’argomento è molto piu’ ampio ma per non allungarmi troppo finisco…)

In conclusione vorrei fare un riferimento al tema del vuoto ricollegandolo alla nostra società, in particolar modo vorrei fare un accenno ad una recente canzone di Franco Battiato: “Il Vuoto”.
Il testo dice:

“tempo non c’è tempo sempre più in affanno sembra il nostro tempo…vuoto di senso, senso di vuoto…un mare di gente nel vuoto… tu sei quello che tu vuoi ma non sai quello che tu sei…danni fisici psicologici, collera, paura e stress, sindrome da traffico, ansia e stati emotivi, primordiali malesseri, pericoli imminenti…”
Il vuoto qui è visto come un malessere sociale una sindrome negativa che affligge la nostra società frenetica e stressata…
L’esempio più lampante si può notare nelle nostre metro: gente schiva, con lo sguardo assente nel VUOTO

Alessandra